Guerra tra Francia e Germania. Solo una stravaganza? No se si legge un articolo apparso il 27 ottobre sul quotidiano economico transalpino Les Echos. Sia il prestigio della testata che il nome dell’autore, Jacques Attali, fanno capire che non si tratta di una boutade. Attali, ex consigliere di François Mitterand, è oggi un intellettuale molto rispettato nel suo paese. Le nationalisme, c’est la guerre aveva messo in guardia il 17 gennaio 1995 proprio Mitterand davanti al parlamento europeo in seduta plenaria. E se Attali si fosse limitato a ricordare i pericoli delle ondate di sciovinismo che oggi percorrono il pianeta, il suo articolo non avrebbe fatto tanto rumore. A inizio 2019 un avvertimento simile lo aveva già pronunciato Angela Merkel. Allora la leader democratico-cristiana era stata accusata di smisuratezza. Oggi la situazione però è diversa. Non solo perché quanto poteva sembrare una ipotesi lontana è una realtà vicina, ma anche perché l’aggressione russa all’Ucraina ha riportato le trincee nei territori orientali del continente. E ogni volta che all’est succede qualcosa di nuovo, le relazioni franco-tedesche vengono messe alla prova. Cosi è successo negli anni ’70 del secolo scorso quando all’Ostpolitik, politica di apertura verso l’est, di Willy Brandt, Georges Pompidou ha contrapposto l’apertura della Comunità Economia Europea al Regno Unito, puntando al triangolo Bonn-Londra-Parigi proprio per ingabbiare il movimento emancipatorio tedesco. Agli inizi degli anni ’90, constatando che il processo di riunificazione della Germania era diventato ormai inarrestabile, la Francia ha accentuato la spinta alla creazione dell’Unione europea e della moneta unica. Accettando di sacrificare la potenza del D-Mark, la nuova Germania sottolineava la volontà di ancorare all’Europa la propria forza economica. E di turbare il meno possibile l’armonia tra Parigi e Berlino.
Tra 2004 e 2007 l’allargamento UE ai paesi dell’Europa centrale e orientale, mette fine alla parità franco-tedesca nei termini concepiti dal trattato di Nizza. Che la Germania fosse “il paese più avvantaggiato dal processo di integrazione europea” lo riconoscerà nel 2006 lo stesso vice presidente della Commissione, il tedesco Guenter Verheugen. Una tendenza che proseguirà in caso di futura adesione all’Ue di Ucraina, Moldavia, Georgia e Balcani. Più il baricentro dell’Ue si sposta a est più la centralità della Germania si rafforza.
Berlino, più Washington e meno Parigi
Nel 1949, al momento della sua nascita, la Repubblica Federale di Germania (RFT) aveva due direttive di politica estera. Innanzitutto stretti rapporti con gli USA da cui riceveva protezione nei confronti dell’URSS. In secondo luogo la riconciliazione con i paesi vicini e soprattutto la pacificazione con Parigi, il proprio nemico storico. I leader francesi e tedeschi dell’epoca, De Gaulle e Adenauer, condividevano sia l’idea “dell’Europa potenza” – un progetto che al contrario gli USA ostacolavano – sia l’obbligo che questa realizzandosi non violasse l’equilibrio tra le due nazioni. Il terzo asse diplomatico dell’ex potenza nazionalsocialista stava nella graduale reintegrazione del paese nelle istituzioni internazionali. E se i primi due momenti precisavano quanto la sovranità della nuova Germania fosse limitata, col terzo invece Bonn tentava di sviluppare una propria (relativa) autonomia diplomatica, allo scopo di superare la divisione della nazione.
Il progetto, vittorioso, della riunificazione si è a sua volta basato su due concetti. Quello politico-culturale dell’Ostpolitik e quello politico-economico del Wandel durch Handel, cambiamento attraverso il commercio. E se attuando il primo concetto la RFT è riuscita a convincere che la Germania unita non avrebbe rappresentato un pericolo per la sicurezza degli Stati europei, l’altro ha invece sviluppato la dipendenza tedesca dal gas russo. In realtà i rapporti economici tra Germania e Russia sono solo una parte di quell’intreccio dalle fondamenta storiche “complesse e profonde” come sottolinea il maggiore storico tedesco contemporaneo. Secondo August Winkler è da “più di un secolo” che importanti ambienti produttivi e intellettuali di Mosca e Berlino sono convinti della necessità di una “relazione particolare” tra i due paesi. Tutto questo è saltato in aria tra il 22 e il 24 febbraio 2022. In due giorni non solo gli accordi di Minsk, orgoglio e speranza della diplomazia tedesca, sono diventati carta straccia. Soprattutto è andata in fumo l’idea sponsorizzata da Berlino che sia possibile avere rapporti affidabili con la Russia. E che per raggiungere accordi anche su questioni complicate servano pazienza e comprensione per il punto di vista del Cremlino, evitando tutto ciò che Mosca possa interpretare come provocazione.
Una superpotenza economica priva di potenza strategica
Il passo genocidario di Putin in Ucraina ha costretto la Germania, il paese fino a quel momento “portavoce degli interessi russi in Europa”, a un faticoso ripensamento del proprio ruolo nel mondo. È chiaro che l’equilibrio europeo renderà Impossibile esportare ovunque la formula del Wandel durch Handel. Una strategia internazionale che privilegiando l’export economico aveva in mente esclusivamente gli interessi delle aziende esportatrici tedesche. Inoltre l’economizzazione della politica estera tedesca, mettendo in secondo piano la distinzione tra paesi autocratici o meno, ha reso Berlino dipendente dai piani dei governi autoritari. Il modello, vendere alla Cina prodotti competitivi realizzati grazie ai prezzi bassi con cui riceveva le materie prime russe, ha cosi privato la superpotenza economica tedesca di potenza strategica. Come dimostra, proprio in questi giorni, l’esempio delle relazioni con Pechino.
Come colmare questo deficit strategico? L’idea dell’equilibrio europeo detterebbe di farlo con la Francia. Ma sono anni che Berlino trascura questo assunto. Dal 2011 le tre maggiori decisioni della politica tedesca in Europa: l’abbandono del nucleare civile annunciato nel marzo di quell’anno, l’apertura delle frontiere ai profughi siriani dell’agosto 2015 e la svolta epocale dei 100 miliardi di euro da destinare alla difesa tedesca presa dal cancelliere Scholz lo scorso marzo sono state compiute in solitudine. Senza il rassicurante coordinamento con Parigi. Un comportamento ribadito lo scorso 13 ottobre con l’accordo sull’European Sky Shield Initiative, ISSI. Sottoscritto al quartier generale della NATO, tra i 15 paesi firmatari mancava il delegato francese. Cosi un pilastro importante della difesa europea interna alla NATO, verrà realizzato non contro, ma senza la Francia. Secondo Attali, con questi passi Berlino dimostra che per la propria sovranità strategica punta su Washington non su Parigi.
Ugualmente controverso resta il tema dello FCAS, Future Combat Air System. Definito “uno strumento chiave per la futura autonomia e sovranità della difesa europea”, il progetto non sembra essere tra le priorità del Bundestag. Eppure nel marzo del 2019 i due paesi avevano dato vita all’Assemblea parlamentare franco-tedesca. Struttura il cui compito consiste nel seguire insieme gli affari internazionali ed europei di comune interesse. Oltre all’energia in questo campo rientrano la politica estera, quella di sicurezza e di difesa dell’UE. Al momento della fondazione dell’Assemblea l’allora presidente del Bundestag, Wolfgang Schaeuble, affermava quanto “i rapporti intensivi nelle questioni sostanziali della difesa” fossero il compito inderogabile del momento. Per il democratico cristiano, Francia e Germania dovevano condividere la strategia di sicurezza e portare avanti progetti di difesa comune. Dopo Schaeuble, la nuova responsabile del Parlamento tedesco, la socialdemocratica Baerbel Bas, introducendo il 7 novembre l’ottava seduta comune della Commissione e condannando la guerra russa di aggressione all’Ucraina, ammoniva che “Francia e Germania non devono farsi dividere”.
In questo caso, e questa volta è Attali a parlare, crollerebbe “tutta la costruzione degli ultimi sessant’anni”.